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Dalla montagna alla città: olimpiadi insostenibili

Dalla montagna alla città: olimpiadi insostenibili

Il 6 febbraio 2026 inaugureranno i giochi olimpici invernali 2026. A due anni esatti dall’apertura della kermesse ospitata dall’inconsueto ticket Milano-Cortina, dal 3 al 10 febbraio ha avuto luogo una densa settimana di mobilitazioni diffuse contro queste olimpiadi e il modello economico, ecologico, sportivo, ad esse sotteso. Dalla Valcamonica alla Valtellina, e da Venezia a Parigi, diversi appuntamenti di informazione e protesta hanno ritmato l’avvicinamento al primo corteo milanese convocato dal CIO – Comitato Insostenibili Olimpiadi, detournement del più noto Comitato Olimpico Internazionale.

L’appuntamento è annunciato per le ore 15 in piazzale Lodi, decisamente al di fuori del centro storico solitamente eletto a proscenio delle manifestazioni cittadine. L’ultima comunicazione delle e dei promotori conferma la piazza nonostante i servizi meteo una volta tanto concordino senza appello sulla previsione “piogge consistenti”. E la pioggia accoglie, dapprima leggera, poi più insistente e in ogni caso senza soste, l’intero pomeriggio nel quadrante sud-est della capitale olimpica. Prima ancora di prendere “posizione” lungo l’ex scalo ferroviario Romana (che ospita i cantieri del villaggio olimpico, gli unici, dicono, scevri da ritardi più o meno imbarazzanti) una collettiva dello sport popolare invita i sodali a un’irruzione comunicativa all’interno della palestra Virgin, già cinema Maestoso e nell’intertempo che precede la valorizzazione immobiliare sede, tra le altre, del centro sociale RiMake. Nella città che si vuole metropoli, cinema e teatri cadono come mosche, e quando a prenderne il posto sono parcheggi o palestre “di grido” l’esito del processo si commenta da sé.
In una manciata di minuti una flotta di cargo-bike prende la testa, trainando bob su rotelle con sportivi in tutina e cartelli che articolano gli argomenti della protesta odierna: cementificazione, green-washing, gentrificazione, sfratti, privatizzazione. È la cifra stilistica dell’Associazione Proletari Escursionisti e della rete che ha convocato la piazza. Sì perché una delle scommesse di questo 10 febbraio era quella di leggere la nocività dell’immaginario e dell’iniziativa olimpica nella cornice del diritto alla città e delle lotte per l’abitare che dentro questo perimetro si danno. Sarà questa convergenza a rendere la manifestazione tanto particolare: da una parte le giovani realtà dell’attivismo climatico sorte a partire dal 2019 (XR, FFF ed Ecologia politica tra le altre, ma anche decane dell’ecologismo quali Greenpeace), dall’altra una nutrita truppa di soggettività storicamente slegate dall’attivismo metropolitano oggi più che mai disponibili a far sentire la propria voce e dimostrare disponibilità alla difesa delle terre alte al di fuori di ogni logica localistica (Athamanta, The outdoor manifesto, Comitato Alpe Devero e lo stesso CAI di Milano). Quindi le reti e i comitati per il diritto alla casa, la sempre presente (e protetta finché possibile da un telo impermeabile a protezione degli strumenti) Banda degli ottoni e tanti centri sociali dell’area metropolitana. Un mix incomprimibile in queste poche righe ma che si può almeno in parte riepilogare tra le adesioni giunte all’indirizzo cio2026.org nel tentativo di comprendere una composizione che anche al colpo d’occhio non era quella che forse in molti ci si aspettavano, e questo è positivo.
Un migliaio i partecipanti? Per certo con un cielo più clemente le presenze sarebbero state ben più numerose, eppure il guanto di sfida è stato lanciato. Di più, a colpi di guantoni i cinque cerchi recanti le parole chiave del corteo sono stati sfondati in un momento di narrazione tra i molti che hanno battuto il tempo di questa bagnatissima piazza di periferia. Le realtà proponenti, e che hanno promosso sin qui l’assemblea del CIO, animano fluidamente il pomeriggio del quartiere Corvetto con messaggi vergati su striscioni verticali, interventi comunicativi e un incessante microfono aperto, a dire: cominciamo adesso, la città e specialmente l’arco alpino già compromesso dalla crisi climatica (perché fragile, unico e più sensibile ai mutamenti presenti) devono dotarsi ora di un laboratorio permanente di controinformazione, studio e contestazione della bolla olimpica.

Sono almeno 3,6 i miliardi già stanziati per la realizzazione di palazzetti e opere, ma specialmente di infrastrutture vocate a una viabilità veloce, privata, costosa, fossile e sovradimensionata, oltre che nociva, inutile e imposta. Risorse sottratte alle tante priorità di quanti anelano una vita dignitosa, servizi di prossimità, cura. Gli stessi proponenti in occasione del punto fatto una manciata di giorni fa a due anni dal grande evento sportivo hanno candidamente ammesso che i ritardi non sono un problema, perché al di là delle opere indispensabili e quindi indifferibili, il resto del pacchetto degli allegati è serenamente posticipabile oltre le settimane in cui i fari si accendono su Milano e Cortina. Olimpiadi vinte, vale la pena riepilogarlo, contro una città la cui sindacatura era contraria, con l’aggravante dell’edizione precedente e della successiva assegnate a tavolino per assenza di concorrenti. E’ questa la cartina al tornasole di un happening indesiderabile, eppure capace di produrre movimento terra, marketing territoriale, lavoro non retribuito e un’idea stravolta e pericolosa della montagna quale parco divertimenti a cielo aperto.
Intanto il Palasharp di Milano resta in abbandono dopo 15 anni di promesse, gli extra-costi di Santa Giulia ammontano a 70 milioni, sui lavori di Monza, Vercurago, Sondrio pesa il forte disaccordo delle comunità locali e la vicenda della pista da bob illumina sui rischi relativi ai molti lavori che toccheranno l’areale di Cortina, Anterselva e oltre.

Quante volte abbiamo assistito al contrappunto “sapete solo dire no”, “quali sono le alternative?”. L’alternativa è l’opzione zero, rinunciare per riaprire con senso critico il campo da gioco. Non avverrà, e per questo occorre ripartire dalle relazioni, dai contenuti e dal segnale politico offerto dalla piazza meneghina di sabato 10 febbraio, magari rispolverando il motto di Alex Langer: non serve andare più forte, più veloce, più in alto; dobbiamo osare andare più dolcemente, più lentamente, più in profondità. E, aggiungo io, non accontentandoci di essere facili profetesse e commentatori della nocività che incombe.

Alberto “abo” Di Monte

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